Scorro le immagini una dopo l’altra. Tramonti colorati. Foreste nella nebbia. Sguardi intensi. Silhouette controluce. Sono perfette: primi piani nitidi, bokeh meravigliosi, gamma dinamica profonda. Eppure non una mi emoziona o mi suscita un pensiero, non una sarà ricordata fra cinque minuti. Poi càpito su una foto sbagliata: messa a fuoco onirica, colori inverosimili, contrasti assurdi. Mi fermo. Sento. Penso.
E allora capisco.
Scattare una foto può essere un gesto filosofico? Invece di limitarmi a copiare quello che vedo, io posso usare la fotocamera per andare controcorrente rispetto alla perfezione tecnologica, per ritrovare il senso profondo di uno scatto che parli della mia Weltanschauung.
Nelle mie immagini sia l’aspetto complessivo sia il dettaglio puntano in una direzione che non chiede definizione ma dissolvenza. Come se fossero determinati da una forma di diffidenza verso la realtà, come se ci fosse una decisa necessità di filtrare l’esperienza. La tecnica non è ostentazione ma mediazione, forse perfino una meditazione protettiva, uno spazio di sicurezza fra lo sguardo e le cose. L’interiorità non cerca risposte né provocazioni ma un silenzio abitabile. È un nichilismo che non distrugge ma si ritrae. Un nichilismo malinconico o forse perfino estetico. Un nichilismo che non afferma il Nulla ma lo lascia agire come sfondo costante: c’è un mondo che viene osservato senza che gli venga chiesto di avere un significato. Insomma si mostra la precarietà del mondo, la si accetta e si sceglie di restare in quella zona sospesa in cui le cose non sono ancora finite ma non promettono più nulla. Tutto ciò non è mancanza di coerenza, bensì proprio l’opposto: troppa coerenza, il nichilismo che si fa atmosfera.
1. L’OCCASIONE ESISTENZIALE
Conosco autori che sposano un unico soggetto: solo panorami, solo foreste, solo architetture, solo ritratti, solo street, solo scegli-quello-che-vuoi-purché-sia-sempre-lo-stesso. Io osservo ogni loro foto e pochi minuti dopo, a volte pochi secondi dopo, l’ho persa, dimenticata nel calderone di tutte le altre. Erano immagini meravigliose di soggetti stupendi. Ma erano tutte simili le une alle altre.
Allora decidere di non fotografare sempre gli stessi soggetti in modo seriale per cercare invece il soggetto qualunque che colpisce nell’istante qualsiasi è molto più di una scelta di stile: è una posizione filosofica. In un’epoca nella quale sono sommerso da immagini perfette ma prodotte in modo meccanico, io cerco il soggetto e il momento imperfetti ma unici per dare valore a quel frammento di realtà che non si può replicare all’infinito.
Il trionfo del Kairos sul Chronos
I filosofi greci ci hanno insegnato che esistono due tipi di tempo. C’è Chronos, il tempo che passa uguale per tutti, lineare e un po’ noioso. E poi c’è Kairos, il momento giusto, l’attimo speciale in cui succede qualcosa che conta davvero. La fotografia che evita i soggetti splendidi ma banali e ripetuti si basa proprio sul Kairos. Se riprendo un tramonto esplosivo o una foresta mistica per la millesima volta, io sono bloccato nel Chronos: confermo quello che tutti conoscono già. I social sono pieni di questa roba: immagini che scorrono via senza lasciarmi niente. Se invece colgo l’incastro unico tra una luce che sta scomparendo e una posa del tutto casuale, allora l’immagine diventa un evento. La fotografia raccoglie una scintilla che appartiene alla vita vera e non solo alla tecnologia, una scintilla che mi emoziona e che mi resterà impressa.
L’aura come unicità dell’apparizione
Walter Benjamin sosteneva che con la riproducibilità tecnica l’opera d’arte ha perduto la sua aura. Eppure, se cerco l’attimo irripetibile, quell’aura io la posso ritrovare: non nel soggetto, ma nell’unicità del mio incontro con esso. Quando scelgo di non fare la solita foto da cartolina e scopro invece la luce su un muro scrostato in un istante preciso della giornata, io oppongo resistenza alla banalità. In quel momento il muro diventa unico: esiste così soltanto adesso e per l’ultima volta nell’intera storia dell’universo. La fotografia smette di essere una duplicazione delle cose e diventa una rivelazione dell’irripetibile.
L’aletheia del quotidiano
Per Martin Heidegger la verità non è una formula logica, bensì un’emersione delle cose: lui la chiamava aletheia. La luce non serve solo per percepire gli oggetti, ma permette al mondo di mostrarsi per quello che è, uscendo dal buio dell’ovvio. Allora smettere di immortalare sempre le stesse cose significa rifiutare i pregiudizi visivi. Se fotografo il bello già impacchettato, seguo uno schema mentale abusato. Se invece aspetto che la luce trasformi un oggetto qualunque in qualcosa di magico, assisto a una piccola epifania. Fotografare diventa dunque un gesto di umiltà: io non mi impongo sul mondo, ma mi metto in ascolto della realtà perché possa esporsi nella propria esistenza nuda e unica.
Contro la società dello spettacolo
Secondo Guy Debord la continua ripetizione dei soggetti crea un rumore di fondo che addormenta i sensi. Il già visto fa stare tranquilli perché non scuote: è il trucco su cui si regge la società dello spettacolo per tenere buoni gli individui e abituarli a non pensare, in un assopimento intellettuale che inibisce ogni reazione. La singolarità rompe questo circolo vizioso. Quando scopro un gesto unico o una luce particolare, io mi oppongo alla logica del consumo veloce delle immagini. Servono pazienza e capacità di osservare: l’esatto contrario dello scatto di una raffica di foto senza riflessione. La fotografia diventa così un Hapax legomenon visivo.
Il punctum e la ferita del tempo
Roland Barthes si riferiva al punctum come a quel dettaglio che punge e ferisce perché non rientra negli schemi culturali, che lui chiamava studium. L’idea è quella di catturare proprio quel dettaglio. Se il soggetto è banale e già visto, non ci faccio caso. Ma se è unico, come una ruga particolare o un’ombra asimmetrica, allora la mia foto non è più solo informazione, ma diventa un’esperienza. È il momento in cui comprendo di essere anch’io limitato: come quella luce non tornerà più, pure io sono un essere unico che non si ripeterà mai.
Il caso fuori dal controllo
Dopo averlo scelto, un pittore ha il pieno controllo del proprio soggetto: nell’opera inserisce ed elimina ciò che vuole. Come fotografo invece io sono sottomesso al caso: il mio spazio di manovra, benché esteso dalla potenza tecnologica, deve sempre fare i conti con l’imprevedibilità del reale. Proprio in questo sta il fascino dell’arte fotografica, che pone in relazione l’attimo e il caso attraverso l’atto creativo. Ma l’attimo e il caso possono tanto più dispiegarsi quanto più variegato è lo spazio potenziale dei soggetti.
2. L’ANTIREALISMO COME CREAZIONE
Allontanarsi dal realismo per rappresentare una realtà modificata fino al punto di abbracciare l’astrazione non è solo una questione di gusti: è una scelta filosofica profonda. In un mondo dove ogni smartphone può generare foto realistiche perfette, io decido di negare la realtà perché è l’unico modo per difendere l’arte come un atto veramente umano.
La crisi della mimesi nell’era dell’algoritmo
Per tanto tempo la fotografia è stata considerata una traccia della realtà, la prova che un fatto è accaduto davvero. Tuttavia oggi siamo in un paradosso: la tecnologia è diventata così efficace e potente che fare foto realistiche è fin troppo facile per qualunque persona. La mia foto perfetta è perfettamente equivalente alla foto perfetta di chiunque altro. Vilém Flusser sosteneva che il fotografo rischia di diventare solo un dipendente della propria macchina. Se la fotocamera è programmata per produrre foto nitide e ben esposte, premendo il tasto io non creo nulla: mi limito a seguire le istruzioni dell’algoritmo interno. Quando la perfezione è alla portata di tutti, non solo non ha più un valore artistico, ma non è nemmeno una dimostrazione di abilità tecnica. Lo sguardo viene standardizzato da sensori che mostrano un mondo che è solo un calcolo matematico. Il rifiuto del realismo è allora un sabotaggio del sistema. Io voglio che sia uno veicolo per la mia visione interiore, anche se devo forzare i limiti dello strumento, violare i canoni tradizionali della fotografia o applicare con mano pesante la post-produzione.
La fotografia come poiesis
L’astrazione è lo strumento definitivo per liberarsi dalla schiavitù della realtà. Se la foto realista è mimesis, cioè imitazione, quella astratta è poiesis, cioè creazione pura. Perché rendere un soggetto inverosimile o perfino irriconoscibile? Nella distinzione kantiana fra fenomeno e noumeno, vedo il realismo fermarsi al fenomeno, alla superficie delle cose, mentre l’astrazione cerca di catturare il noumeno attraverso il ritmo e le forme. Come affermava Paul Klee, con l’arte io non copio quello che vedo, ma rendo visibile ciò che mi è nascosto. Nell’astratto il soggetto sparisce e resta solo il rapporto fra le forme. La fotografia diventa così un’arte filosofica, quasi come la musica: una successione di vibrazioni luminose che colpiscono dritto alla pancia senza bisogno di spiegazioni a parole.
La creatività come resistenza alla perfezione
Oggi la tecnologia mi ostacola perché elimina l’errore e la fatica. Un tempo ottenere un’immagine nitida era una prova di bravura. Oggi è gratis perché me la regala l’intelligenza artificiale, e allora il valore dell’arte deve spostarsi altrove. Sta nella mia scelta di distorcere, oscurare o saturare. Mentre l’AI può generare infinite foto realistiche, un’immagine che nasce dal mio gesto umano è irripetibile. La bellezza nasce allora dove la fotocamera vedrebbe solo un errore di messa a fuoco o di esposizione.
3. L’ONTOLOGIA DEL CONTRASTO
Un contrasto potente, sia di luce sia di colore, non è solo un espediente grafico, bensì un modo per esprimere una visione del mondo che apprezza i conflitti fra estremi inconciliabili, dove la via di mezzo scompare perché ininfluente e priva di interesse, anzi fonte di distrazione e di appiattimento.
Il chiaroscuro come scelta etica
Attraverso il contrasto violento io cancello i grigi e le zone incerte. Ritorno a Eraclito, secondo il quale l’armonia nasce proprio dallo scontro tra gli opposti. Se il mondo è polemos, la verità non si trova nella pace dei mezzitoni ma nel conflitto fra alte luci accecanti e neri profondi. Senza questo scontro fra luce e ombra non esisterebbe nemmeno la forma degli oggetti. Bianco e nero si definiscono a vicenda e sono indispensabili uno all’altro. La luce (l’Essere) rappresenta il senso che emerge, l’epifania, mentre l’ombra (il Nulla) non è un vuoto, bensì il luogo nel quale la mia fantasia può essere libera.
L’isolamento dell’essenza
Con l’aumento del contrasto luminoso io faccio sparire quello che non serve: le ombre inghiottono i dettagli inutili e quello che resta illuminato è stato voluto di proposito. In modo analogo, con il contrasto cromatico io estraggo il soggetto dallo sfondo per ridargli dignità e strapparlo all’anonimato. Mentre il realismo vuole mostrare tutto, attraverso la forzatura cromatica io decido che cosa nascondere. In un mondo sommerso dagli stimoli realistici ma piatti, l’impiego del contrasto è un atto di sottrazione che esprime un potere creativo: io obbligo chi guarda la mia foto a metterci del suo per interpretarla. È un gesto di volontà quasi kierkegaardiano.
La dialettica tra apparenza e verità
Esasperando i contrasti, io metto in scena la lotta tra quello che si vede e quello che resta nascosto. L’ombra è anzitutto mistero: se tutto fosse illuminato, non ci sarebbe spazio per sognare. L’ombra dura poi è l’ignoto, l’inconscio. D’altro canto la luce diventa un fatto metafisico, quasi mistico: non una luce normale, quanto piuttosto una ferita nel buio che dice la verità della materia. È il passaggio dal caos dell’ombra alla forma del logos.
L’estetica dell’Assoluto e il rifiuto del compromesso
Scegliendo il contrasto, io rifiuto la sfumatura, che spesso è solo un sinonimo di mediocrità o di ambiguità. Questo radicalismo visivo è la mia ricerca dell’Assoluto. Bianco e nero puri sono astrazioni, perché in Natura non esistono quasi mai così separati. Ricreandoli o quanto meno rafforzandoli, io provo a superare la Natura per arrivare a un ordine mentale superiore. Il risultato è un’emozione pura: invece della calma dei mezzitoni, i neri profondi e le alte luci danno un colpo allo stomaco, suscitano estasi o angoscia o entusiasmo. È l’estetica del Sublime di Burke e di Kant: la bellezza che scuote e mette quasi timore attraverso lo scontro dei contrari.
Il colore come linguaggio simbolico
Quando impiego i contrasti di colore, la mia scelta non è più finalizzata a una piatta rappresentazione dei soggetti, ma assume un valore simbolico. I colori complementari spingono oltre il realismo e l’imitazione. Entro nel mondo dell’espressionismo, dove il colore non dice come sono fatte le cose, ma che cosa io provo guardandole. È un equilibrio dinamico risonante con la vita stessa, fatta di pulsioni opposte sempre in movimento. Quando il colore diventa violento e irreale, non appartiene più al soggetto ma diventa il mio stato d’animo: il colore racconta la temperatura del mio pensiero.
CONCLUSIONE: LA FOTOGRAFIA COME METAFISICA DELLA LUCE
Decidere di non ripetersi e cercare l’unicità non è un vezzo da artisti, bensì un impegno serio. Io affermo che quel pezzetto di realtà va salvato dall’oblio, perché è presente in un modo che non tornerà mai più. È l’estetica del caso che diventa destino.
Fotografare in modo non realista non significa scappare dal mondo, ma entrare in esso ancora più a fondo. Rifiutando di essere didascalico, io dichiaro che la realtà non è quello che vedo con gli occhi, ma quello che sento grazie alla luce.
Il contrasto violento è il cuore di questa visione: un ritmo fatto di lampi e di silenzi. In un mondo pieno di immagini perfette ma vuote, questa mia fotografia invita a fare una pausa, a smettere di riconoscere gli oggetti e a iniziare a guardare l’energia pura della luce. Così facendo, io divento un resistente contro la superficialità che addormenta il cervello e contro la perfezione noiosa che cancella ogni differenza. Con le mie immagini io sostengo che la vita è fatta di momenti significativi da interpretare. Momenti che solo attraverso lo scontro frontale portano chiarezza.